mercoledì 11 luglio 2012

le fou: un personnage conceptuel? 1

marzo - aprile 2012
conversazione con Pierre-Henri Castel
a cura di Olivier Mongin.


Il matto: un personaggio concettuale?

Esprit - Dal dopoguerra, la figura del "matto", insieme a quella del "bambino" e del "selvaggio", è emersa come una nuova risorsa della filosofia francese. Vi si fa riferimento (come fa, ad esempio, Merleau-Ponty in Fenomenologia della percezione) per descrivere un rapporto col mondo differente da quello  instaurato dalla ragione. Come si spiega questo simbolismo ricorsivo, all'indomani della Seconda guerra mondiale? In che modo la follia permette di spostare le frontiere del reale o del razionale per  far entrare in scena un'inedita verità?
P.-H. Castel - Su questa questione, mi sembra che la filosofia francese si sia strutturata in maniera del tutto particolare. Da un lato, a partire da Descartes, ha un rapporto che costituisce la ragione come negazione della non-ragione. L'autocoscienza cartesiana si costituisce, attraverso l'esperienza delle Meditazioni metafisiche, e passando attraverso il dubbio, come entità razionale e al sé evidente, mediante l'esclusione di tutti gli elementi non razionali. Seguendo questa traccia, la filosofia francese, da Maine de Biran a Bergson, ha avuto particolare attenzione per quella, che oserei definire, l'esteriorità di questa interiorità. L'utilizzo della follia come figura dell'alterità della ragione, nella seconda metà del XX secolo, non è dunque che la ripresa di un tema già posto. D'altra parte, Auguste Comte, altro padre nobile della filosofia francese, riprende nel suo Corso di filosofia positiva, la tesi di Bichat secondo cui il normale e il patologico sono in continuità1, di modo che l'investigazione scientifica dei fenomeni patologici permetterebbe di perfezionare le conoscenze relative agli stati normali. Il metodo patologico applicato allo studio dei fatti morali è così divenuto una costante della filosofia francese fino a Canguilhem. Quest'idea di rapporto tra normale e patologico, intersecandosi con la questione della costituzione del soggetto e della razionalità che esclude il non razionale, ha offerto un terreno "naturale" per la maturazione di una rappresentazione concettualmente densa della follia. Sulla base di questa ricostruzione storica, sono poco incline a concedere che il ricorso alla figura del matto abbia avuto, nella seconda metà del XX secolo, i caratteri di una maggior discontinuità. Si basava su un retroterra culturale preciso, e quando si lega allo sviluppo della fenomenologia (è questo il suo tratto più originale) lo fa prolungando linee di pensiero già esistenti.
Del resto, la filosofia francese della III Repubblica intrattiene rapporti sostanziosi con la psicologia. L'esame di psicologia era obbligatorio per la laurea in filosofia e, negli anni '20, gli studenti della Sorbona frequentavano con regolarità le lezioni di Georges Dumas al Saint-Anne. Sartre conosceva e discuteva le idee di Janet; Bergson e Janet lavoravano insieme al Collège de France. C'è dunque, nel pubblico colto una notevole sensibilità per queste tematiche. Tale prossimità tra filosofia e psicologia induceva anche a veementi polemiche. Esempio clamoroso, che non è stato mai oggetto di uno studio specifico, è l'analisi che fa Lacan del caso del presidente Schreber2. In quel testo Lacan rifiuta la definizione di Taine dell'allucinazione quale percezione senza oggetto. L'idea che un folle senta qualcosa che non esiste, non è più sostenibile. L'allucinazione è piuttosto l'irruzione di un oggetto non significabile, che denuncia una qualche carenza nel rapporto tra il soggetto e il codice del linguaggio. Ma anche Merlau-Ponty, nella Fenomenologia della percezione, aveva già un'identica posizione, anti Taine. Infatti la fenomenologia si focalizza sull'esperienza in prima persona, sui vissuti soggettivi. In tal modo può concepire la coscienza non come un'omogenea e completa sostanza pensante, ma come una relazione dinamica, una struttura essenzialmente intenzionale, da cui si definisce la percezione non più come ricezione passiva di informazioni fornite dagli organi di senso, ma fondamentalmente come attività. Il nuovo soggetto fenomenologico è quindi incompatibile con la definizione di percezione senza oggetto, dell'allucinazione - definizione, per inciso, che è tuttora quella del DSM3, oltre che del senso comune4. La riferita presa di posizione di Lacan non rappresenta, dunque, tanto una rottura con il soggetto cartesiano - rottura già consumata dalla fenomenologia - quanto un'esemplificazione dell'interesse della filosofia francese per la follia, alimentato dalla volontà di tutti gli autori degli anni '50, di cimentarsi nella miglior distruzione possibile del soggetto cartesiano e dell'idea tradizionale di coscienza.
L'effervescenza attorno al tema della follia è ulteriormente, stimolata, in quegli anni, dai progressi della psichiatria. La fede nella possibilità, per le nuove scienze umane e la psicanalisi, di spiegare e guarire le psicosi, arriva in Francia nei primi anni '60, dieci anni dopo gli Stati Uniti. La grande delusione degli anni '80 sta nella constatazione che, se anche psicofarmaci e neurolettici hanno cambiato la presa in carico delle psicosi croniche, purtuttavia non le hanno guarite. L'orizzonte di una guarigione possibile si intravede fino al citato articolo di Lacan5: anche se il testo induce a concludere che le psicosi (a differenza delle nevrosi) non sono guaribili dalla psicanalisi, il titolo tradisce una certa qual aria di ottimismo rispetto alle future ricerche.
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1 Per Bichat la malattia conferisce un nuovo statuto epistemologico, non essendo altro che la forma patologica della vita.
2 Jacques Lacan, Séminaire sur les psychoses, Paris, 1966; Id. , «Questions préliminaires à tout traitement possible de la psychose», Paris, 1966.
3 Manuale Diagnostico Statistico dell'OMS.
4 Cfr.  Louis Sass, Les paradoxes du délire. Wittgenstein, Schreber et l'ésprit schizophrénique, Paris, 2010.
5 vedi nota 2.
seconda parte

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